Le Domeniche in famiglia

26.08.2013

Non c'era l'ascensore in quel palazzo costruito forse nel 700, 800 o fine millennio. Sto parlando di case del popolino non certo di palazzi signorili o di regge. Nei quartieri di Napoli, forse Montesanto, se la memoria non mi inganna. Avrei voluto tanto che ci fosse l'ascensore, perché a quei tempi avevo poco meno di 10 anni e mi eccitava l'idea di essere trainato su e giù dentro una cabina da un cavo; quella sensazione inconsueta di essere sollevato su o sprofondato giù, che recava anche un certo disagio fisico, mi suscitava euforia, e trovavo gradevole l'odore di grasso che impregnava i cavi e del legno naturale, tipico degli ascensori dell'epoca. 

Costruiti in legno, di bella fattura, eleganti, scorrevano lungo i binari fissati ad una gabbia di ferro quadrata dentro la quale la cabina, visibile dall'esterno scivolava silenziosamente su e giù. Lo schiocco del cavo, il fruscio leggero dei freni, un clak, indicava lo stop al piano, poi il caratteristico battere delle porte a molla e lo scorrere sferragliante del cancello esterno, poi un sibilo, di nuovo uno schiocco e via e così per ogni piano.No, lì proprio non c'era, c'erano invece numerosi gradini da scalare fino al terzo piano e si poteva immaginare come fossero le tese di scale in un palazzo di quell'epoca e di quella fattura. Prima delle scale del palazzo ce n'erano altre, esterne, molto ripide, appena si usciva dalla metropolitana, per colmare l'altezza di dieci metri che passavano tra i due livelli di strade costruite come i terrazzamenti di collina.

 "Metropolitana" di Montesanto, un eufemismo per quei tempi, ma era definita proprio così, forse una della prima linea ferroviaria sotterranea costruita in Italia. Stiamo parlando degli anni 50 a Napoli.Le scale mobili, il vento freddo-umido impregnato d'odori i più variegati: terra, ferro, legno, polvere, ma anche profumi ed "essenza" dei passeggeri che salivano e scendevano fitti e numerosi; vento che veniva su dalle viscere della terra, provocato dal tiraggio a "stantuffo" dei treni che sfilavano lungo le gallerie, e dalla differenza climatica tra il dentro e il fuori. 

Su quelle scale, altro divertimento della mia infanzia, mi si teneva per mano, perché "pericolose" per via degli scalini rollanti che sia alla base sia in cima uscivano e rientravano innalzandosi e livellandosi improvvisamente sotto il pavimento, per cui si doveva fare un "saltino" sia per salirvi sia per scendervi e quel salto poteva essere fatale per il contraccolpo dovuto all'inerzia tra lo scorrere e il fermarsi che spesso provocava le vertigini o come dicevo io "giramento di testa". Per questo anche quel giorno, mio padre mi teneva per mano. Si andava quasi tutte le domeniche a trovare il nonno e i parenti dalla parte di mio padre, che abitavano proprio lì a due passi dalla stazione, dieci metri più in alto. Era un modo per ritrovarsi e stare tutti insieme, mantenere unita la famiglia come si usava fino a pochi decenni fa.

Prima di andare però di solito, si scendeva lungo la strada che portava al cuore del quartiere, con la famosa strada chiamata Pignasecca con tutti i suoi negozi, i banchi esterni, i venditori ambulanti e abusivi, i "puosti", come erano chiamati, dove insieme alla frutta si vendevano sigarette ed altri generi di contrabbando. Lì nello spiazzo antistante la chiesa di......seduta su una sedia impagliata, circondata da un panchetto di legno su cui erano appoggiate numerose...... di banane, c'era lei una donna grinzosa, scura, piccola, non avrei saputo darle un'età, la chiamavano "a bananara". 

Sotto il banchetto proprio davanti a lei teneva occultati le stecche di sigarette. La lasciavano "campare" così diceva, perché tutti sapevano, ma nessuno interveniva, questa signora era lì ancora un decennio fa, sembrava immortale sempre uguale, poi un giorno il "puosto" e sparito. Lì di fronte c'era, ma forse ancora c'è, una pasticceria, tappa obbligata per acquistare un vassoio di paste da portare per il pranzo, di solito prevalevano le famose "sfogliatelle" sia ricce sia frolle, il favoloso e tradizionale "babà'" e la zuppa inglese a strati era d'obbligo, a me era riservata una pasta fatta da due biscotti tondi farciti di crema alla nocciola con tanto zucchero spolverato sopra di cui andavo matto la "deliziosa", spesso la mangiavo subito con inevitabile rimbrotto del genitore di turno.

Nei pressi c'era e c'è l'altra quasi metropolitana antica di Napoli, la Cumana, così chiamata perché lungo il suo percorso, tutto fatto su costa, tocca Cuma e i luoghi resi famosi dalla Sibilla. Noi non la prendevamo quasi mai perché passava a Pozzuoli bassa, quasi sul porto, mentre la metropolitana era lì a due passi da casa.Il pacchetto caratteristico col vassoio, rettangolare, la carta lucida bianca con la scritta in rosso e la nocca del nastrino dello stesso colore, poggiava sul palmo della mano di mio padre in bella vista e si tornava sui nostri passi, io ancora mi pulivo le labbra dalla "deliziosa" e dal suo zucchero a polvere. 

A sinistra della strada, proprio a fianco della Cumana, altra storica, caratteristica creazione di Napoli la "Funicolare" che collega tutt'ora il quartiere Montesanto con quello del Vomero. Era d'obbligo fermarsi, più che altro ero io che lo imponevo, per osservare le cabine verdi e rosse che facevano su e giù lungo la parete della collina arrampicandosi su un dislivello impressionante, tirate da cavi spessi tenuti in linea da rotolanti e rumorose putrelle. Mi piaceva soprattutto lo "scambio" che avveniva poche centinaia di metri più in alto, tra i due "treni" e trovavo soprattutto buffa la forma delle carrozze, oblique, "storte" dicevo io, per essere in asse con il dislivello, spigolose, un po' tozze, ma con tanti finestrini e porte scorrevoli ed osservavo incantato il piccolo pantografo sul tetto della carrozza pilota, che graffiava i cavi dell'alta tensione. 

Sprizzando scintille, per alimentare le luci di posizioni e quelle degli scompartimenti. Sulle fiancate c'erano dei numeri, 1 per il treno rosso e 2 per quello verde. Nella carrozza pilota sul davanti c'era la postazione del "capotreno" che sorvegliava il percorso e si assicurava che le porte fossero chiuse e che tutto funzionasse alla perfezione. Spesso desideravo di essere al loro posto e divertirmi a fare su e giù tutto il giorno, trascuravo, per ovvi motivi, l'aspetto responsabilità. Uno strattone improvviso mi riportava alla realtà. Bisognava andare, guai ad arrivare tardi al pranzo della domenica! 

Era d'uso che tutti dovevano essere in casa, prima dell'arrivo del capofamiglia, il nonno, che nel mio caso era il padre di mio padre. Fratello di un famoso pasticciere che avrebbe poi dato lustro al cognome producendo dei famosissimi confetti conosciuti in tutto il mondo, lui invece era stato sempre operaio, aveva lavorato a lungo nelle fabbriche ed era una persona molto esigente e rigida anche se in fondo buona, ma spesso nascondeva quest'aspetto del suo carattere per interpretare quello tradizionale e "dovuto" del capo della famiglia. 

Seppi anni dopo che i due fratelli avevano litigato di brutto e non si erano più rivolti la parola, quello dei confetti divenne ricco e famoso, l'altro, mio nonno, ha vissuto una vita dignitosa ma anonima; altro motivo di divisione quello ideologico, l'altro era per la libera imprenditoria, questo invece era stato forgiato nei sindacati e nelle lotte operaie ed era dichiaratamente comunista. Così che, oltre che per i dolci, ci si doveva fermare anche dal giornalaio per comprargli "l'Unità" e di questo era "incaricato" mio padre, chissà perché questo compito era sempre affidato a lui, pur essendoci tanti altri figli e nipoti. Questa curiosità non potrà essere appagata, non mi è mai venuto di chiederlo al diretto interessato, che ora non può più rispondermi.

All'epoca dei fatti narrati, mio nonno era in pensione da diversi anni, ma per il suo temperamento era impossibile che stesse fermo a far nulla e allora aiutava il sagrestano della chiesa nelle sue incombenze. Per cui tornava a casa intorno alla 13,00 dopo l'ultima messa della mattina. C'era ancora tutto il tempo, mio padre, però aveva fretta di portare su le paste e metterle al fresco per non farle andare a male e perché in realtà non vedeva l'ora di incontrare la sorella verso la quale provava un affetto particolare. 

Era di solito lei ad aprirci la porta, quando, si bussava al portone, di quelli massicci a due ante, di legno di mogano, con la targa dorata e il nome scritto in un bel corsivo calligrafico ad incisione. Notavo sempre questo particolare e provavo una strana sensazione nel vedere il mio nome e cognome incisi su quella targa d'ottone lucido.
Vestita di solito di scuro, di statura bassa, e in questo era uguale a mio padre, non che gli somigliasse, anzi erano fisicamente molto diversi, lei piuttosto robusta, lui magro, anche nel viso si faceva fatica a trovare tratti simili, ma si avvertiva tutta la carica d'affetto e di legame profondo quando si abbracciavano e baciavano sulle guance subito oltre la soglia dell'ingresso. Io restavo lì, incantato ad osservare e mi sentivo piccolo in mezzo al gruppo di persone che erano lì ad aspettarci, una foresta di gambe e corpi tra i quali io sgusciavo a fatica, poi mia madre mi esortava a salutare e dare il "bacietto" a tutti. Questo era per me un momento tormentato e critico, perché non amavo il contatto fisico, le carezze e le effusioni. 

Non potevo sfuggire erano lì tutti in fila, le zie, gli zii, i parenti che erano lì per l'occasione festiva. Pensavo tra me, si stancheranno di chinarsi verso di me, invece non mi risparmiò nessuno. Alla fine avevo la faccia tutta umida di labbra e di baci. In realtà quella manifestazione d'affetto mi rincuorava, mi faceva sentite adulto, mi confermava appartenenza e protezione e di questo avevo proprio bisogno. Un personaggio poi, in particolare, mi metteva a disagio, uno zio, il marito della sorella di mio padre che mi era particolarmente antipatico, non sapevo il motivo, una sensazione a pelle. 

Era enfatico, ironico, spesso arrogante e non perdeva l'occasione per "sfottermi" e "sfrocoliarmi", sentivo la sua ironia sagace che m'infastidiva perché rivolta al mio modo di vestire, di camminare, per il fatto che parlassi poco e mi esprimessi male, un vero tormento. Sentivo montare dentro la rabbia e l'aggressività, in mia difesa interveniva sempre la zia che riusciva a zittirlo e fargli cambiare registro. Mi sarei aspettato una difesa da mio padre, ma anche lui era suggestionato da lui, che proveniva da famiglia benestante, facoltosa e di lontane origine ebree, e che era stato Federale al tempo del fascismo!

La legge della compensazione è inesorabile, questo zio aveva, infatti, due figli un maschio e una femmina, entrambi ribelli e autonomi e che gli creavano non pochi problemi. Erano lì poco dietro agli altri insieme alle alte mie due cugine, figlie del fratello di mio padre. Nell'ordine di presentazione e saluti, venivano rigorosamente dopo gli adulti. Con loro solo un fugace ciao e niente smancerie. 

La casa era di quelle con ingresso, porta passante e gran sala da pranzo, in fondo, la cucina a destra di quest'ultima il bagno. La porta della camera da letto affacciava sull'ingresso. C'erano due balconi uno di questi era nel soggiorno e affacciava proprio sul lato della collina dove passava la funicolare, cosicché quasi tutto il tempo io restavo lì fuori a guardarla andare su e giù, era il mio rifugio personale, privato, per evitare la pedanteria degli adulti e l'esuberanza dei cugini. 

A turno, i miei genitori venivano a controllarmi e, altre volte, a chiamarmi perché c'era qualcosa da fare o qualcuno che chiedeva di me.Mi concedevo solo ai cugini scambiando qualche parola per raccontarci di quello che avevamo fatto dall'ultima volta che c'eravamo visti e scherzando anche un po'. Il mio cugino ribelle aveva per me una particolare predilezione e cercava di coinvolgermi in ogni argomento o scherzo voleva iniziarmi a qualcosa di proibito, vietato; erano famosi e temuti gli scherzi d'ogni genere, anche piuttosto pesanti, nei confronti di adulti e bambini, senza distinzioni. 

Aveva qualche anno più di me, ma era già molto avanti, come dire, molto più "sgamato" degli altri e soprattutto di me, già parlava di donne e teneva discorsi da far arrossire e scandalizzare le nostre cuginette e, dovevo ammettere, un po' anche me.... solo la sorella sembrava restare indifferente, abituata alle sue uscite e ai suoi discorsi, c'era grande complicità tra loro, un'intesa molto forte, sembravano far fronte comune contro un comune nemico, e non faticavo a indovinare chi fosse! Lei era la più grande ed anche molto bella, si diceva avesse già molti corteggiatori. Era un po' la sorella maggiore di tutti noi ed era molto considerata dagli adulti, poiché spesso mediava le scorribande del fratello e le nostre insofferenze. 

Gli adulti, in queste occasioni conviviali si dividevano i compiti, e come da tradizione millenaria (?), gli uomini chiacchieravano, fumavano o si leggevano il giornale e le donne tutte in cucina a preparare il pranzo....La cucina era di quelle miste, aveva ancora la "fornacella" per cuocere a carbone e allo stesso tempo quattro grandi fuochi alimentati a gas di città, per intenderci quello che macchiava tutte le pentole, i poggiapentole, i fuochi. Per ripulirli occorreva cenere e lavoro di gomito. 

Grosse fiamme azzurre ai bordi e rosse al centro erano accese utilizzando grossi accendigas a scintilla elettrica, oggi introvabili, nemmeno dai rigattieri più in.Ricordo che, spesso, annoiato dai discorsi degli adulti e stanco degli scherzi e degli "nciuci" (pettegolezzi) dei cugini, mi fermavo sull'uscio della cucina, più in la non si poteva perché c'era il divieto per motivi di calamità naturali.... e osservavo con curiosità e apprensione quelle fiamme, potenti, ne sentivo il soffio a distanza e la vampata di calore mi arrivava sulle guance per via del vento che filtrava dalla finestra aperta e mi portava, nel riscontro, tutti gli odori e i sentori. 

Guardavo le grosse pentole che a me sembravano enormi viste dal basso, sporgevano appena dai frangifiamma ed erano avvolte da nuvole di vapore e con il fondo nero pece, le fiamme arrivavano a lambire i fianchi delle pentole allora una mano esperta chiudeva leggermente la chiavetta d'ottone a farfalla, situata davanti al fornello e abbassava la fiamma. Come ogni domenica, per pranzo, c'erano i maccheroni con il ragù, quello "vero", quello di cui i napoletani vanno tanto orgogliosi, quello che sta tutto una notte a cuocere a fuoco lento e che emana un profumo inebriante e per tutta la casa, suscitando languori di vario genere ma soprattutto quello della fame. 

C'era l'addetta al ragù, un'altra mia zia, persona esuberante, attiva, energica che conosceva la ricetta autentica e storica del ragù, guai affidare ad altri l'incombenza. Le altre nell'attesa che l'acqua si decide a bollire, sono sedute intorno al tavolo e preparano la pasta spezzando i lunghi zitoni grezzi, in pezzi più piccoli, si sente il caratteristico rumore del grano duro che si spezza, anche i frammenti sono scrupolosamente raccolti e messi nei piatti, "sono i pezzi migliori, i più "sfiziosi", dice qualcuno". 

Un'altra taglia il pane, fatto in casa con il forno a legna, croccante e morbido al contempo, che emana una fragranza di farina e legno bruciato insieme, di nascosto la zia ce ne da un pezzettino a testa per assaggio....poco però! Altrimenti si perde l'appetito!Ormai è quasi tutto pronto, c'è da apparecchiare la tavola e qui chiedono l'aiuto dei bambini, è divertente disporre i tovaglioli, le posate, "attenti ai coltelli che tagliano!", i bicchieri "non li fate cadere!" uffa se stanno un po' zitti, ci godiamo meglio questo momento di responsabilità da adulti. 

Si appoggiano al tavolo i piatti piani, bianchi, di porcellana, del servizio buono che si tira fuori per l'occasione, poi i piatti fondi che, per ora, si appoggiano su quelli piani. Saranno poi portati all'ultimo momento in cucina per l'impiattamento. Poi c'è il vino, quello preso alla cantina di Zì Nicola, alla salita Montecalvario e l'acqua di rubinetto, perché allora non c'era l'acqua minerale come la conosciamo oggi, si rendeva frizzante aggiungendo una busta di preparato che la rendeva effervescente.Ora sì che ci siamo, l'ora è quella giusta, il ragù ha il colore che gli compete, l'acqua bolle. Si butta giù la pasta, quella ci mette un po' a cuocere perché è originale, lavorata con metodi artigianali e molto spessa, ne sanno qualcosa le dita di mia madre che sono tutte rosse e doloranti. E' quasi l'una, sta per arrivare la persona più importante, colui per il quale ci si è attivati con tanto fervore, che come il signore del castello, darà il suo giudizio culinario ed estetico, il padrone di casa, il capofamiglia, il "Nonno"! 

Il rumore delle chiavi nella toppa è in largo anticipo preannunciato da uno degli zii, il quale, dal balcone della camera da letto, avverte che il nonno sta salendo le ultime rampe di scale della strada che era entrato nel portone e allora tutti in fila davanti all'ingresso, prima i bambini, dietro gli adulti, tutti in trepida attesa. 

Il portoncino si apre e sull'uscio, trafelato, con vari pacchetti in mano, appare una figura tarchiata, appesantita, vestita a festa con giacca, pantalone e cravatta, capelli grigi un po' scarmigliati, i baffi folti bianchi e la barba trascurata. Io sono il primo ad avvicinarmi, lo guardo dal basso in alto, mi sembra enorme, la sua figura occupa tutto l'uscio e mi fa ombra, sento un leggero imbarazzo, un senso di soggezione e di timore alzo lo sguardo e incontro lo sguardo stanco di due occhi chiari che mi fissano con un'espressione di meraviglia. 

Un attimo d'esitazione e poi l'esclamazione "Uè, piccirì, stai pure tu ca'" e l'ombra si abbassa, si piega verso di me e mi porge la guancia, sento un afrore d'incenso e di lavanda, il respiro affannoso, socchiudo gli occhi, mentre ci scambiamo due baci sulle guance. Mi resta impressa la pungente morbidezza dei baffi e la rudezza della guancia da rasare e un consumato odore di caffè. Non riesco a trattenere la commozione, ma è solo un attimo, tocca agli altri che per la foga quasi mi travolgono.