Il prete e il sacerdote

08.07.2013

Che forte suggestione quando entravo nel duomo del mio paese. Potevo avere una decina d'anni, mi accompagnava una cugina di mia madre, molto devota al santo protettore ed iscritta, se non ricordo male, nel gruppo delle francescane laiche. La festa di S.Gelso, questo il nome del patrono del mio paese, si teneva tutti gli anni in quei tempi ed era abbinato alla festa di un altro famoso patrono, quello di Napoli S.Gennaro.

Portati entrambi in quella che era chiamata processione, un rito cattolico con seguiti e simboli pagani, i due santi erano trasportati a spalla dai fedelissimi, quella di S.Gennaro era molto pesante, di marmo, l'altra invece, mi sembra fosse di ceramica o terracotta.Un seguito di fedeli numerosissimi, o almeno a me, piccolo, sembrava una folla immensa, un corteo interminabile. Aspettavo sul cancello di casa che passasse il corteo e mia madre mi affidava alla cugina che partiva dalla chiesa insieme al santo. 

Annunciavano il "corteo", le moto dei vigili e qualche auto degli organizzatori, poi vedevo da lontano sulla curva della strada ondeggiare gli stendardi, rosso sangue quello del patrono di Napoli e l'altro bianco con bordi viola, di quello di Pozzuoli. Alla vista dei pennacchi sulla cima del labaro mi prendeva un senso di euforia e di commozione, era la festa che aspettavo, quella delle lacrime e della gioia, dei volti sudati, degli occhi rossi e le guance rigate di lacrime, delle smorfie dolorose e al contempo estatiche dei portatori, delle facce annoiate dei giovani, dello stupore e curiosità dei bimbi. 

Uno sciorinare di rosario, un mormorio ritmato, prolungato, infinito, mi chiedevo come facevano ad andare tutte a ritmo, le "amiche" dei santi, quelle che si battono il petto, che inveiscono, che invocano, che pregano che piangono che si agitano fino al parossismo perché i santi intercedano per non so quale richiesta o grazia. Tutto questo mi eccitava e inquietava allo stesso tempo, lo scorrere lento e cadenzato del corteo, i colori, i suoni, sì perché subito dietro la statua del santo c'era la banda musicale del paese, fiati e percussioni che intonavano canti di chiesa e canzoni popolari, in un miscuglio di ritmi che mi scuotevano dentro e mi risuonavano come un ricordo atavico. 

Qualcosa che c'era sempre stato e un senso di appartenenza consolatorio e rassicurante. Quando la mia accompagnatrice mi prendeva la mano, mi sentivo al sicuro, e una volta dentro il corteo, ero quasi schiacciato da tante persone così alte. A stento riuscivo a vedere il cielo e, a tratti, sui lati, gli alberi e le case del paese. Con grande fatica, aguzzando la vista, scorgevo i labari con i loro ciuffi, lì davanti, non erano mai fermi. Ogni tanto si abbassavano quasi fino a terra. 

Mi chiedevo il perché, allora la mia protettrice, quasi avesse ascoltato la mia domanda silenziosa, mi portava davanti al corteo, sui marciapiedi ed io avevo la mia risposta, che però aumentava la mia curiosità, la gente uscire dalle case, dai negozi, e attaccava con spille, adesivi e altro, delle monete di carta, allora c'erano le lire, biglietti da cinquecento, mille, cinquemila. Erano donazioni da parte del popolo perché la tradizione si potesse mantenere viva, le spese per le feste e l'autorizzazione per il corteo erano abbastanza sostenute e dall'altro anche un "prezzo", un compenso per grazie ricevuto o chieste.   

E così, tra piccole soste, un rosario in coro e canti di chiesa, ci si muoveva verso il duomo di Pozzuoli situato sul punto più alto e antico, il centro storico del paese, il Rione Terra; case arroccate, costruite col tufo ricavato dalle cave della zona, affacci e balconi, lastrici e terrazzi dove il sole faceva da padrone, tante piante fiorite e colorate e vista stupenda sul porto e sul golfo. Rione Terra un promontorio naturale, il primo insediamento del paese. 

Sotto, un porticciolo per pescherecci, ricavato da un'insenatura naturale, protetta da scogliera e chiusa al suo ingresso da un ponte sotto il quale passavano i pescherecci e i "gozzi" da lampara. I pescatori, a forza di remi, entravano in fila indiana e abbassavano il capo per passare sotto l'arco del ponte, con un movimento fluido, lento, cadenzato, ritmico, una sequenza armoniosa, frutto di gesti ripetuti, appresi fin da giovani e "ereditati" dai padri e dalla tradizione. 

Questo porticciolo, che ancora oggi ospita barche alla fonda, si chiama "Valione", un nome di cui ancora oggi ignoro l'etimologia e la ignorava anche la cugina di mia madre, benché molto più anziana di lei.  Il duomo, monumentale, si raggiungeva attraversando strade scoscese, strette, a gomito, l'ultimo tratto era una vera e propria arrampicata per il corteo e questo tratto era per me quello più impressionante, per lo sforzo dei portantini, il sudore che colava loro sulla fronte e bagnava le loro vesti, la festa si svolgeva a settembre e dalle mie parti, in quel mese, faceva ancora molto caldo. 

Lungo il percorso c'erano disseminate varie chiese, e a ogni canto dei sagrati ci si fermava per il "saluto" dei labari che si abbassavano verso le guglie dei campanili per venerare il sacramento, questo gesto si ripeteva a ogni sosta ed era accompagnato dai "botti", che scuotevano gli androni dei palazzi e il cui eco si riverberava lungo le stradine per poi perdersi verso l'ampia insenatura del porto. Era il momento per me più sofferente, mi tappavo le orecchie, non tanto per paura ma perché quegli scoppi "entravano" con un impeto tale da scuotermi tutto, e il bello è che questa cosa non era sgradevole anzi quasi mi esaltava e mi dava un senso di espansione (già da allora, ma non ne ero consapevole). 

Il top dell'emozione però la raggiungevo quando il corteo cominciava ad aprirsi, segno che stavamo per arrivare, la mia accompagnatrice, con l'abilità, frutto dell'esperienza, mi tirava via dalla folla e con poche mosse abili, mi faceva ritrovare in chiesa prima degli altri per trovare "il posto migliore" da dove potevo osservare l'altare maggiore e seguire tutto il rito. Ogni volta che varcavo il portone del tempio, provavo una sensazione mista di reverenza, soggezione e mistero, l'interno era addobbato per le grandi occasioni, colori, fiori e luci dappertutto. 

Prevaleva il colore rosso, mi sembrava che tutto lo spazio fosse coperto da un alone di luce rossastra, accentuata e amplificata dai grandi ceri accesi sull'altare maggiore. E ancora, l'acuto odore d'incenso, acre ma gradevole, che mi è rimasto impresso, ancora oggi se mi concentro lo sento ancora nelle narici. Era inebriante, accattivante, saliva, lento e a volute dense dai turiboli agitati con maestria dai chierici in fila ai lati delle navate per fare da sponda agli ospiti. Io salivo sulla seduta del panchetto, sostenuto dalla mia "quasi" zia, per vedere meglio, i primi a entrare erano i labari, quello rosso scarlatto per primo, si poneva al lato sinistro dell'altare, seguiva quello bianco dell'ospitante che si collocava sulla destra. 

Finalmente erano fermi, poggiati sul pavimento di marmo lucido, la "vela" raccolta e avvolta intorno al bastone da mano esperta, che poi si stringeva reggendolo ai tre quarti, il portatore si ricomponeva in un atteggiamento di seria riverenza. Seguiva la statua di S.Gennaro, che ondeggiava lungo la navata, con il volto pietrificato nel marmo che sembrava animarsi assumendo un'espressione di gratitudine e di contentezza. A qualcuno poteva sembrava che sorridesse, ad altri che fosse sudato, altri ancora dicevano che lo sguardo vitreo si posava roteando le pupille sulle file dei fedeli ai suoi lati. 

Forse era suggestione, condizionamento ma avevo l'impressione che la statua dovesse prendere vita da un momento all'altro, nel gioco delle penombre creato dalle luci dei ceri e delle lampade. In alcuni momenti sentivo nascere dentro di me uno strano senso di gioia e rassicurante abbandono, in altri provavo timore, "impressionato" da tutta la scena. Una sorta di amore-timore, verso quel personaggio, che dentro di me ancora prima che nascessi. Fluiva nel sangue, nei ricordi inconsci, nei racconti ascoltati dai parenti nelle sere d'inverno davanti ai bracieri o ai carboni ardenti della cucina, quando mia madre preparava la cena e mi parlava dei miracoli, del sangue che si scioglie sulla pietra dove il vescovo fu decapitato. 

Dell'aneddoto del sudore raccolto con un fazzoletto sul marmo della chiesa quando stava per accadere qualcosa di grave. Tutto questo era dentro di me e mi "legava" alla tradizione, all'appartenenza. Una condizione che mi "obbligava" a essere grato e al contempo temere questa sacralità e ritualità; che non era solo andare alla messa la domenica e alle feste comandate, che non era la frequentazione delle chiese anche fuori dagli orari canonici. C'era dell'altro, qualcosa che ancora oggi stento a comprendere, anche se mi è chiaro che quel manto che mi ricopriva era stato tessuto molti anni e secoli prima che decidessi di farlo mio, scegliendo di nascere proprio in quel posto.