Il filosofo e l'illuminato

04.07.2013

Il filosofo: me lo sono sempre figurato come una persona dalla barba folta, lo sguardo profondo e l'atteggiamento austero. Un pensatore, ecco. Uno dotato di grande capacità introspettiva e di analisi. Un tipo un po' "strano", sempre al confine tra la normalità e la follia. Un visionario, ecco. Uno che dedica la sua vita alla ricerca dell'origine e dello scopo di ogni cosa, una risposta ai grandi interrogativi della vita. Uno studioso, ecco. Uno che taglia il capello in due per vedere cosa c'è dentro, un abile utilizzatore delle parole, delle frasi e dei concetti, che si arrampica su vette dialogiche ardue o si perde in sofistiche elucubrazioni. 

Spesso è un riferimento per movimenti politici, in altre occasioni inviso alla chiesa, a meno di non essere un filosofo cattolico o un teologo.Sarà così? Dopo aver profuso in queste righe iniziali quello che so e penso dei filosofi, vado a guardarmi wikipedia, per fare un confronto con la versione "ufficiale" o comunemente accettata.Sorpresa! Mi rimanda alla voce "Filosofia", non trovo una definizione di filosofo, per cui torno alla descrizione che io stesso ho dato e mi viene subito da riflettere che il filosofo è uno che pensa, usa molto il pensiero, logico, logico deduttivo, analogico ecc.. 

Il pensiero come si sa è frutto della mente, la mente è il tramite tra noi e la realtà esterna, o meglio il tramite tra la realtà esterna e l'interpretazione che ne dà l'ego, proiezioni, costruzioni logiche, concetti, progettualità, rappresentazione......quindi filosofare, nella sostanza è girare in tondo intorno ad un asse, avvitandosi su se stessi, nel tentativo di dare una spiegazione a tutto ciò che l'ego osserva (proietta) attraverso la mente.Dal momento in cui a tutti gli elementi e oggetti della realtà esterna si danno dei nomi, nasce l'esigenza di comprenderne il significato, la stratificazione dei significati e delle interpretazioni contribuisce all'allontanamento sempre più evidente dal contatto diretto, energetico con la stessa realtà. 

Quindi il significato, il senso di quella realtà, è "dimenticato", "nascosto" da questa stratificazione, di qui la necessità di ritrovarne il senso, e l'ego ci riesce solo attraverso l'analisi logica e mentale, finendo però con il perdersi; perché equivale ad avvitarsi su una spirale senza fine. Quando pensi di aver compreso un significato, ne sorge un altro e poi un altro, fino ad arrivare al punto di negare tutto o di aderire al dogma e alla fede, il nulla dell'ateo o il dio del credente. Mi piace qui riportare l'esempio di come si innesca la dinamica dell'analisi: se si osserva una rosa e non si sa che si tratta di una rosa, si resta "colpiti" dal colore, dalla fragranza, dalla bellezza estetica di quella cosa, ma se gli si da un nome, la sensazione di cristallizza e diventa una catalogazione, un pensiero, quella è una rosa e si dirà: quanto e bella e profumata questa rosa!. Il sentire, diventa pensiero. 

Il contatto diretto con l'oggetto si spezza e la sua interpretazione dovrà passare attraverso la mente che ora "conosce" quell'oggetto come "rosa". Inizia quindi la speculazione: che cos'è una rosa, come nasce, perché è colorata, perché e profumata e così via....Nel momento in cui un'osservazione disincantata della realtà, diventa esigenza di comprensione, nasce il pensiero filosofico e quindi la figura del filosofo. Tra le altre cose lette su wikipedia mi viene di riportare questo passo:

Il bisogno di filosofare, secondo Aristotele, che segue in questo Platone, nascerebbe dalla "meraviglia", ovvero dal senso di stupore e di inquietudine sperimentata dall'uomo quando, soddisfatte le immediate necessità materiali, comincia ad interrogarsi sulla sua esistenza e sul suo rapporto con il mondo"

 Quella "meraviglia" che suscita il contatto diretto con l'oggetto, ha subito un alterazione, finchè siamo allo "stupore" il contatto è ancora attivo, ma quando subentra l'"inquietudine" è c'è la "caduta" il "distacco" dall'oggetto. E per riconoscerlo e comprenderlo gli si da un nome, il nome è la proiezione interpretativa dell'ego, che si frappone tra il sentire e l'oggetto. Quest'ultimo diventa "estraneo", altro da se, "incomprensibile"; di qui il turbamento, l'inquietudine e nasce la domanda: cos'è ciò che sto vedendo, da dove viene, chi l'ha prodotto e perché. 

L'impellenza di una risposta dà il via a una lunga catena di interrogativi e di supposizioni, che alla fine, come accennato sopra porta alla semplice constatazione dell'esistenza della cosa e della sua accettazione, dietro e oltre la quale c'è il nulla. Nel caso opposto la bellezza, l'armonia della cosa può far supporre che dietro ci sia un autore che s'identifica in una divinità o un dio.In ogni caso non c'è la consapevolezza di essersi distaccati dalla meraviglia e dallo stupore iniziali, che non hanno bisogno di risposte perché non c'è chi chiede, chi s'interroga, ma semplicemente esiste una relazione, l'unione diretta con l'oggetto. 

Pensate allo stupore e alla meraviglia di un bambino che osserva ed entra in sintonia con la cosa, resta come ipnotizzato, diventa esso stesso quella cosa, perché non c'è interferenza, poi qualcuno un giorno gli dice "sai cos'è quella? Si chiama rosa", e il distacco accade.Il percorso a ritroso quindi è il presupposto per ritrovare la meraviglia e lo stupore innocenti del bambino. Gli ordini iniziatici dell'occidente e la religiosità introspettiva orientale, hanno dettato i modi e le vie da percorrere per ritornare alle origini, su questo argomento vedi (inserisci link). 

L'alter ego del filosofo è l'illuminato, colui che ha ritrovato il legame sottile, che ricontattando la vera profonda identità scopre che è la stessa che produce la realtà esterna e via via ritrova il filo rosso che lo lega da sempre a ciò che vede e che ciò che vede non è differente da ciò che egli è, quindi ha alcuna necessità di pensare, di chiedere, di avere riposte, perché è già lui stesso la risposta. 

In questa condizione non ci sono interferenze, la mente è messa a tacere, l'ego è dissolto, il contatto è diretto, torna lo stupore e la meraviglia del bambino che, da adulti e consapevoli diventa il "bambino interiore" . Il bambino non è consapevole di stupirsi e quindi finirà per non esserlo più nel momento in cui riceve l'informazione, l'illuminato è immune da contaminazioni, le informazioni lo attraversano. Qui mi piace citare un famoso detto Zen che descrive magistralmente questa attitudine: 

"Ch'ing-Yuan: all'inizio le montagne erano montagne e le acque erano acque, quando penetrai nella sapienza zen le montagne non erano più montagne e le acque non erano più acque, ma quando raggiunsi l'essenza dello zen le montagne furono di nuovo montagne e le acque di nuovo acque".

Le montagne sono sempre state lì, da prima che l'uomo le desse un nome, poi è stato dato loro un nome è sono state vissute come montagne, per tutto il tempo che si è interagito con esse con per il tramite dell'ego, sono state vissute come staccato da se, poi col percorso di consapevolezza e di "decondizionamento", le montagne scompaiono perché non si identificano più nel loro nome, per poi ricomparire ed essere vissute come essenze dall'osservatore, tornando ad esistere ma stavolta come parti del tutto, come parti di se.Tra le tante definizioni della condizione di illuminato quella che segue mi risuona più di altre, e quindi la propongo, è tratta dal sito "La meditazione come via" - "La ricerca del Toro 10"


"Torna all'insignificanza, al mescolarsi con il mondo comune. Non c'è alcuna ricerca e nemmeno nessun raggiungimento di capacità particolari, di doti mirabolanti: è lì, insignificante, nella folla. Non ha nulla da insegnare, non ha nessuna santa verità da rivelare: è semplicemente lì dove è, e sorride. E anonimo, nessuno sa di lui, nessuno, guardandolo, lo riconosce. È come loro, ma che differenza! Innanzitutto non è separato. Nulla in lui è diviso, frammentato, scollegato; non c'è nessuna barriera tra lui e il mondo: è completamente immerso nel mondo, in lui, non c'è nessun desiderio egocentrico e orgoglioso di fuggirne, di separarsene, di allontanarlo da sé come ciò che è impuro. Al contrario, tutto è illuminato: tutto è puro per i puri. E tutto si pulisce sotto il suo sguardo. Non ha più alcun artificio, è semplicemente e totalmente naturale. Tutto ciò che veniva prima, tutto il suo percorso era pura illusione, errore di prospettiva: non c'è stato nessun cambiamento, nessun passaggio dallo stato di non illuminazione a quello di realizzato. È pienamente immerso nella vita, è vita egli stesso, ciò che prima era morto, ora apre la sua verità lucente: solo questo egli manifesta, il semplice darsi della vita in sé e per sé."


Il filosofo indossa le lenti e attraverso di esse legge la realtà che lo circonda, ha bisogno di qualcosa che gli permetta di vedere, l'illuminato usa il terzo occhio, non ha bisogno di osservare per comprendere, è lui stesso "comprensione", ha raggiunto la radice di ogni cosa. Questa conclusione non è un giudizio, non c'è un primo o un secondo, un bravo e un cattivo, un migliore o un peggiore. E' di nuovo complementarietà, grazie al filosofo si può comprendere cosa sia l'illuminato e viceversa. La legge primordiale dell'equilibrio e integrazione degli opposti trova anche in questo caso, la sua applicazione.