Religiosità trasversale

05.03.2013

Ho riflettuto sull'esperienza della meditazione in chiesa di qualche domenica fa e la prima cosa che mi è rimasta impressa è la frase "stare a capo chino" perché tenere il capo eretto è segno di orgoglio. Confrontarsi col Padre, il Creatore che, va onorato e rispettato perché ci ha dato la vita. Chinare il capo è sinonimo di umiltà, di deferenza e di devozione, verso qualcuno o qualcosa di superiore e di esterno a se. 

Viene naturale fare il confronto con la postura che rimanda ad un atteggiamento non di orgoglio ma diciamo "indipendente", quella utilizzata nello yoga tradizionale, nel taoismo, nel qi gong e anche in molte posture tantriche, dove si prescrive che la punta del mento sia "leggermente" rivolta in basso, e dove l'attitudine interiore è quella di essere appoggiato e seduto in se stesso, lo sguardo sfocato che guarda avanti senza però fissare o concentrarsi in nessuno punto, riporta ad una condizione di attenzione rivolta verso se stessi. 

Non c'è nessuno da ossequiare, a cui chiedere qualcosa o da cui temere giudizi, se non se stessi. Nelle religioni occidentali esiste questa distanza tra se e l'altro, il divino è qualcosa di esterno a se. Poi è presente il senso di colpa, per aver commesso qualcosa di grave, di vietato, di proibito, così che , come nel caso dei bambini disobbedienti, si chiede perdono al padre senza osare guardarlo in volto. 

Per chiedere perdono, ci si mette in ginocchio e se il perdono viene concesso si entra nelle grazie del Padre, allora lo sguardo può levarsi e perdersi in un estasi mistica. L'essere trasportati fuori da se, che è né più ne meno il significato di estasi, consente qui di allontanarsi dalla corporeità e dalla fisicità. L'esigenza di redimersi e purificarsi dal peccato di essere anche corpo, in passato, ha portato a pratiche estreme (autofustigazione, cilicio ecc.) per mortificare la carne e tenere così a bada le "tentazioni" ad essa connesse, prime fra tutte la sessualità, l'erotismo, il piacere. 

Il corpo era ed è in alcuni casi ancora oggi, vissuto come qualcosa d'impuro. La redenzione e il perdono, il riscatto della colpa, passano attraverso un percorso rituale e cerimoniale in un luogo deputato che è il Tempio o la Chiesa. Il rito della comunione, la trasmutazione della carne, la purificazione con l'assunzione, nel corpo corrotto, del corpo di Cristo, figlio di Dio, energia divina e salvifica è uno dei richiami simbolici più efficaci. 

 La gran parte delle religioni orientali, pur conservando, esteriormente, uno spazio strutturato per la ritualità, tempio, hashram ecc., predilige come spazio operativo e come tempio dove lavorare al cambiamento e alla trasformazione, il corpo stesso, utilizzando rituali e tecniche, senza intercessioni esterne o mediazioni esterne, ma con la diretta sperimentazione fisica. Altri spunti interessanti che mi vengono a mente: "abbandonarsi all'infinito" e "dissolversi nell'infinito". Nella pratica tantrica esiste un dissolversi nell'energia, si parla addirittura di un "morire e rinascere" similmente alla "resurrezione". 

La differenza sta, ancora una volta, nell'attitudine attiva dell'abbandonarsi, che può sembrare un paradosso. In realtà è il principio dell'agire senza agire taoista, dove l'imput all'accadere, parte da dentro di se. Una passività attiva di contro ad una passività passiva.Nel pensiero religioso occidentale, la presa di coscienza, la consapevolezza di essere altro da se (e qui per se s'intende l'ego, la maschera, il ruolo, la personalità) passa attraverso una sorta di "intercessione" la figura di Cristo, figlio di Dio. 

Nelle pratiche esoteriche e della tradizione ermetica invece, è un'attitudine interiore che esiste già di per se e che si deve solo riscoprire attraverso la sperimentazione e l'esperienza diretta. Uguale principio lo ritroviamo nel percorso alchemico, vedi articolo di riferimento: Esoterismo e tantra https://ilfornoalchemico.blogspot.it/2012/09/lesoterismo-e-il-tantra.htmlNelle maggiori religioni orientali manca questa esigenza d'intercessione. C'è sostanzialmente una sperimentazione diretta, un contatto con la fisiologia energetica del proprio corpo, con la parte "divina" di esso, con la quale si entra direttamente in contatto. Anche nelle religioni occidentali esistono delle tecniche assimilabili a quelle meditative, la preghiera per esempio, che però è rivolta ad un ente superiore, invoca e chiede. 

Tornando all'esperienza di questo incontro ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte ad una sintesi tra la devozione e la sperimentazione. Maggiore attenzione rivolta a se stessi, introspezione, ricerca interiore che presuppone l'osservatore, il testimone che è dentro di se, accanto ad un'attitudine di fondo penitenziale ed espiatoria. In alcuni tratti esteriori rituali e in alcune invocazioni trovo una similitudine con l'Induismo e i suoi pantheon di divinità, viene mutuata la caratteristica devozionale che lo accomuna al cattolicesimo. 

Anche la postura varia, accanto alla genuflessione c'è la posizione del loto, e nelle formule rituali e di invocazione, Dio diventa Om, energia divina, kundalini ecc. Una sperimentazione insomma che trasversalmente, attinge a tutto ciò che può alimentare l'introspezione, il vuoto interiore, il silenzio, per riscoprire una dimensione interiore che sia più vicino al divino.